FOCUS PRELAZIONE SOCIETARIA:
EFFICACIA OBBLIGATORIA O REALE?
La clausola di prelazione è il patto con il quale si attribuisce agli altri soci il diritto di essere preferiti, a parità di condizioni, in caso di alienazione della partecipazione sociale. A seconda della maggiore o minore intensità che si intende accordare al vincolo di prelazione, essa può essere prevista solo per i trasferimenti a titolo oneroso, oppure anche per i trasferimenti a titolo gratuito e per un corrispettivo infungibile (si pensi alla permuta o alla "datio in solutum").
In quest'ultimo caso, la prelazione è definita "impropria" ed è costantemente sostenuto in dottrina che la prelazione "è legittimamente applicabile anche ai negozi a titolo gratuito o con corrispettivo infungibile soltanto ove siano previsti dei meccanismi correttivi (ad esempio, la valutazione a mezzo arbitratori) che consentano al socio che intende trasferire le partecipazioni di realizzare il valore economico delle stesse" (in tal senso Comitato Triveneto dei Notai, massime HI16 e II21).
La prelazione societaria non è espressamente disciplinata dal legislatore nè per le S.p.A. nè per le S.r.l., però la sua introduzione nello Statuto è assolutamente lecita: ciò è desumibile, per le S.p.A., dalla previsione dell'art. 2355 bis, comma 1, c.c., per il quale "...lo Statuto può sottoporre a particolari condizioni il trasferimento delle azioni...", mentre per le S.r.l. dall'art.. 2469 comma 1 c.c. a tenore del quale "...le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dello Statuto...".
Nelle S.p.A. la clausola di prelazione è valida ed efficace senza che sia necessario prevedere alcun correttivo, ma la sua introduzione legittima il diritto di recesso dei soci assenti, astenuti o dissenzienti, ai sensi dell'art. 2437 comma 2 lett. b, salvo che lo Statuto disponga diversamente (l'introduzione di un limite alla circolazione delle azioni rientra, infatti, tra le cause di recesso derogabili).
Per le S.r.l., invece, l'introduzione di una clausola di prelazione nello Statuto non legittima il diritto di recesso di cui all'art. 2469 comma 2 c.c., in quanto non ne sussiste la "ratio legis", che consiste nell'impedire che il socio possa rimanere "prigioniero" della società. Inoltre, non rientra nemmeno tra le cause "legali" di recesso previste dall'art. 2473 c.c., pertanto l'inserimento di una clausola statutaria di prelazione è causa di recesso soltanto ove stabilito espressamente dallo Statuto.
Tanto premesso, è opportuno soffermarsi sull’accesa discussione circa l'efficacia delle clausole statutarie limitative della circolazione delle partecipazioni sociali, ed, in particolare, della clausola di prelazione.
Ciò che appare controverso è quale sia la conseguenza di un'alienazione di partecipazioni sociali effettuata in spregio del diritto di prelazione statutariamente riconosciuto agli altri soci e la questione assume rilevanza al fine di individuare i rimedi concretamente esperibili dai soci il cui diritto d'essere preferiti è rimasto disatteso.
Ebbene, variegata è sul punto la produzione dottrinaria e giurisprudenziale.
Si può sinteticamente affermare che la questione dell'efficacia reale od obbligatoria della prelazione societaria costituisca inevitabile corollario della diatriba circa la sua natura sociale o parasociale.
Il riconoscimento della natura sociale o parasociale alla prelazione dipende dall'interesse che si ritiene collegato alla clausola: se in essa si ravvisa il perseguimento del solo interesse dei soci, allora la clausola è ritenuta di natura parasociale ed inidonea a produrre effetti reali nei confronti della società e dei terzi, se, invece, in essa si ravvisa il perseguimento di interessi anche della società, allora si riconosce alla prelazione societaria anche un'efficacia reale e l'opponibilità "erga omnes".
V'è chi ritiene che l'introduzione nello Statuto del diritto di prelazione non valga a mutarne la natura di mero patto parasociale, ragion per cui una sua eventuale violazione non potrebbe che generare soltanto effetti obbligatori.
In particolare, ferma restando la validità del trasferimento ed il riconoscimento dei diritti sociali all'acquirente, gli altri soci avrebbero unicamente il diritto al risarcimento dei danni nei confronti del socio alienante.
In verità, questa ricostruzione è da reputarsi minoritaria ed è stata fatta propria unicamente da una sentenza di merito, ormai risalente (Tribunale di Bassano del Grappa 15 settembre 1993).
L'indirizzo attualmente prevalente sembra invece orientato a ritenere che le clausole di prelazione contenute nello Statuto abbiano efficacia reale, dovendosi riconoscere a siffatto accordo valenza sociale e non meramente parasociale.
Si sostiene infatti, che l'interesse sotteso alla prelazione societaria trascenda l'interesse individuale di ciascun socio avendo, evidentemente, detta clausola anche un rilievo organizzativo ed una idoneità a propiziare l'accrescimento del peso dell'elemento personalistico rispetto a quello capitalistico.
Si evidenzia come la prelazione societaria sia intrinsecamente opponibile ai terzi anche per ragioni empiriche: la conoscibilità della clausola da parte dei terzi consegue alla sua introduzione nello Statuto, il quale è reso pubblico, infatti, mediante iscrizione al Registro delle Imprese.
All'interno del suddetto indirizzo maggioritario però, è da registrare una diffusa eterogeneità di opinioni su quali effetti debbano concretamente ricollegarsi alla violazione di siffatta clausola.
Non vi è concordia nell'individuare in cosa consista questo "effetto reale":
-- per alcuni Autori, dall'effetto reale scaturirebbe il diritto di riscatto;
-- per alcune pronunce, l'effetto reale andrebbe inteso quale assoluta inefficacia inter-partes della cessione;
-- la posizione maggioritaria è nel senso che l'effetto reale consiste nell'inopponibilità dell'acquisto alla società e agli altri soci.
Secondo parte della dottrina (in particolare Campobasso), i soci beneficiari del diritto di prelazione avrebbero il diritto di riscattare dal terzo acquirente le partecipazioni sociali.
In realtà, la Corte di Cassazione (ex plurimis Cass. 3 giugno 2014 n. 12370, Cass, 2 dicembre 2015 n. 24559 e Cass. 22 giugno 2016 n. 12956), costantemente, sostiene che il diritto di riscatto costituisca prerogativa delle sole prelazioni "legali" (prelazione ereditaria, ex art. 732 c.c., prelazione agraria ex art. 8 l.590/1965, e prelazione urbana ex art. 39 l. 392/1978), e che, in ogni caso, per le partecipazioni in società di capitali vige il principio della libera trasferibilità, per cui il riscatto non può operare se non espressamente previsto.
In particolare, così si esprime la Suprema Corte nella sentenza 12370/2014 :"...l'art. 2479 c.c. non prevede né conforma il diritto di prelazione, bensì consente il patto di prelazione: il diritto la cui violazione l'odierno ricorrente lamenta non ha, cioè, fonte legale, bensì negoziale, e in tale ambito (alla stregua delle norme di legge, generali e speciali, che lo regolano) trova la sua conformazione... non vi è, dunque, spazio per ricorrere ad un'applicazione analogica, nella fattispecie in esame, del diritto di riscatto previsto dall'art. 732 c.c., a favore dei coeredi: ciò anche in considerazione del fatto che, oltre i confini oggettivi stabiliti dalla convenzione statutaria limitativa, opera la regola generale, posta dall'art. 2479 c.c., della libera trasferibilità della quota sociale (cfr. Cass. Sez. I, 12.1.1989 n. 93)".
Un altro orientamento giurisprudenziale, che però non ha avuto particolare seguito, afferma la inefficacia assoluta del contratto di alienazione effettuato in spregio della clausola statutaria di prelazione.
In proposito, è interessante ricordare la posizione assunta in passato dalla Suprema Corte, la quale, in una pronuncia in tema di S.r.l. (Cass. 30 settembre 2005 n. 19203) è parsa affermare la possibile inefficacia assoluta del contratto di alienazione, così esprimendosi: "...in via di principio, è possibile ammettere che il trasferimento della partecipazione in una società di capitali sia a certi fini efficace ed operante tra le parti indipendentemente dalla sua opponibilità alla società. Tuttavia, quando si tratti di una società a responsabilità limitata, le cui quote non sono naturalmente destinate alla circolazione, una siffatta distinzione è scarsamente plausibile e, comunque, richiederebbe una valutazione in concreto dell'ipotetica volontà in tal senso espressa dai contraenti interessati, non potendosi di sicuro presumere che essi abbiano inteso perfezionare il trasferimento della quota anche a prescindere dalla concreta successiva possibilità, per il cessionario, di esercitare nei confronti della società i diritti inerenti alla qualità di socio...".
Recentemente, è parsa essersi pronunciata in senso simile la Cass. 20 giugno 2017 n. 15173, la quale, nel confermare la pronunzia della Corte d'Appello così si è espressa: " ...passando, poi, alla questione dell'accoglimento delle domande riconvenzionali e del riconoscimento del diritto di prelazione all'acquisto, la Corte d'appello ha rilevato che la clausola di prelazione era inserita nello statuto della società, e che aveva efficacia reale e non obbligatoria, il che comportava l'inefficacia dell'atto di cessione e il riconoscimento del diritto di prelazione in favore del socio pretermesso, trattandosi di trasferimento a titolo oneroso".
L'assoluta invalidità del negozio di trasferimento viene esclusa dalla giurisprudenza maggioritaria: in tal senso, ad esempio, la recente Cass. 24 marzo 2016 n. 5917 : "...ancora in tema di società di capitali, l'acquisto di quote sociali effettuato in violazione del patto di prelazione statutariamente previsto in favore dei soci determina l'inefficacia, peraltro nella sola misura in cui si realizzi un'alterazione nella proporzione fra le rispettive quote, del relativo trasferimento nei confronti degli altri soci e della società, ma non anche la nullità del negozio traslativo tra il socio alienante ed il terzo acquirente (conforme Cass. 7003/2015)".
L'orientamento della giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente e preferibile è nel senso di ritenere che la violazione della clausola statutaria di prelazione comporti unicamente l' inopponibilità dell'acquisto del terzo alla società ed agli altri soci, e, quindi, l'impossibilità di esercitare validamente i diritti sociali connessi alla quota acquistata.
A tal proposito, estremamente chiara e puntuale è la disamina contenuta nella Cass. 2 dicembre 2015 n. 24559, che, pertanto, si riporta qui di seguito: "...l'evidente carattere pattizio della prelazione comporta che il contratto ha, in via di principio, effetto solo tra le parti, con la conseguenza che le posizioni soggettive scaturenti dall'accordo negoziale non possono riflettersi sui terzi... A diversa conclusione devesi, invece, pervenire con riguardo alle ipotesi in cui il patto di prelazione venga inserito, con apposita clausola, dai soci stipulanti nell'atto costitutivo o nello statuto della stessa società. Se quest'inserimento non basta, invero, a privare il patto della sua valenza parasociale, insita nella sua stessa natura, è tuttavia innegabile che esso valga, già solo per aver trasformato il patto in una clausola statutaria, a conferirgli anche una caratterizzazione ulteriore, questa sì di carattere sociale. Non può, difatti, revocarsi in dubbio che, con l'inserimento della clausola di prelazione nell'atto costitutivo, si sia inteso attribuire alla medesima, al pari di qualsiasi altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto dell'ente, anche un valore rilevante per la società... Ne discende che le clausole in questione, venendo ad assolvere anche ad una funzione specificamente sociale, atteso il loro inserimento nell'atto costitutivo o nello statuto dell'ente, cessano di esser regolate dai soli principi del diritto dei contratti, per rientrare, invece, nell'orbita più specifica della normativa societaria (cfr. Cass. 7614/1996).
In tale prospettiva, un consistente indirizzo giurisprudenziale, al quale si ritiene di aderire , si è espresso nel senso che la clausola statutaria di prelazione avrebbe "efficacia reale" ed i suoi effetti sarebbero opponibili anche al terzo acquirente, trattandosi di una regola del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non conformarsi colui che intendesse entrare a far parte di quel medesimo gruppo (cfr. Cass. 7614/1996; 8645/1998; 12797/2012).
E tuttavia, dalla suindicata "efficacia reale" del patto di prelazione, quando è trasfuso in una clausola dell'atto costitutivo o dello statuto, non può derivare il riconoscimento al prelazionario pretermesso del diritto al riscatto del bene, mediante la proposizione di una domanda di retratto. Costituisce, difatti, un'affermazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui, sul plano generale, la prelazione convenzionale, avendo efficacia obbligatoria, è efficace e vincolante per i soli contraenti e non per i terzi estranei ... Ne consegue che la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'inopponibilità nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, stante la menzionata "efficacia reale" del patto inserito nello statuto sociale, della cessione della partecipazione societaria (che resta, però, valida tra le parti stipulanti), nonché l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni. Per contro, siffatta violazione non comporta anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari".
In senso conforme si sono espresse la succitata Cass. 5917/2016, e le sentenze Cass.7003/2015 e 12370/2014.
Inopponibilità del trasferimento alla società ed agli altri soci significa che qualsiasi diritto sociale collegato alle partecipazioni acquistate in spregio alla prelazione non è esercitabile dal socio acquirente, ed il suo eventuale esercizio non produce effetti nei confronti degli altri soci e della società stessa.
Sul punto è interessantissima la sentenza del 20 ottobre 2016 del Tribunale di Milano, in cui si è statuito che l'atto di vendita di partecipazioni societarie in violazione del diritto di prelazione statutariamente previsto è valido, ma inopponibile alla società ed ai soci.
Il Tribunale di Milano, nello specifico, ha stabilito che pur rimanendo ferma, se non impugnata, la deliberazione di aumento del capitale approvata con il voto del socio titolare delle quote così acquistate, sono comunque inefficaci gli acquisti, in esito al disposto aumento oneroso, della parte di capitale sociale corrispondente alla quota oggetto dell'atto di vendita inopponibile.
La varietà delle tesi e posizioni giurisprudenziali che caratterizza la materia in esame induce l'interprete ad un atteggiamento ispirato a criteri di grande prudenza, al fine di sottrarsi ai rischi derivanti dai mutevoli orientamenti e dall'incertezza degli effetti scaturenti dalla violazione del diritto di prelazione.
Potrebbe essere opportuno prevedere espressamente la realità degli effetti della clausola di prelazione stabilendo, ad esempio, che, in caso di inosservanza dell'iter procedimentale della prelazione, l'acquirente delle quote o delle azioni non potrà legittimamente esercitare i diritti connessi alla partecipazione sociale, e, in caso di S.p.A. non potrà ottenere l'iscrizione del trasferimento azionario al libro soci.
Appare chiaro, infatti, che deve dirsi dissipata ogni incertezza dinanzi ad una clausola dello Statuto formulata con precisione e accuratezza, laddove siano disciplinati meticolosamente il procedimento di prelazione e gli effetti scaturenti da una sua violazione ed è altrettanto evidente che il rispetto del procedimento previsto dallo Statuto per l’esercizio del diritto di prelazione è essenziale per la stipula di un atto di cessione che non determini in futuro contenziosi tra i soci.
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